
“Veneziænigma” rappresenta un mosaico ricomposto nel tentativo di svelare, tassello dopo tassello, l’enigmatica essenza di Venezia scavando nel suo passato fin dagli albori di una storia lunga tredici secoli. Una storia densa di accadimenti, in bilico tra mito e realtà, della quale fornisce una mappatura completa e documentata, suddivisa in sei scenari: i Sestieri della città. Il lettore può così varcare la soglia delle apparenze addentrandosi in una Venezia diversa, “sottile” e misteriosa, fatta di segni levigati dal tempo, allegorie e codici arcani da decifrare. Cronache, usi e costumi, tradizioni, racconti popolari e leggende tramandate, divengono allora la chiave di lettura per scoprire verità sepolte, luoghi, fatti e personaggi affascinanti, protagonisti di straordinarie vicende che testimoniano gli antichi sfarzi e il potere che furono della “Dominante”. Una raccolta apparentemente disordinata di leggende e curiosità, di aneddoti e misteri, di storie lugubri e fatti divertenti. In una città lenta in un mondo velocissimo, tutti questi racconti correvano il serio rischio di sparire per sempre, inghiottiti dalla inevitabile fretta con cui si è abituati a vivere. Perché sono storie che venivano raccontate, e nessuno ha più il tempo (o la voglia) di raccontare storie, o di sentirsene raccontare.
Storie di dogi e cortigiane, di popolani e in qualche caso di animali, aspetti di una venezianità perduta (semplicemente sorpassata, da non rimpiangere) dei quali parlano le stesse pietre della città, se ci si ferma un solo istante in ascolto. Ecco allora le storie di sempre, già scritte altrove ma mai raccolte tutte assieme (e in ogni caso mai segnalate nei luoghi ove avvennero): quella del luganegher Biasio che faceva un delizioso intingolo con la carne dei bambini, del povero Fornaretto ucciso ingiustamente per un delitto commesso da un nobile; quella di un diavolo travestito da scimmia che un frate coraggioso fece uscire da un muro, che ne porta ancora i segni, o quella ancora di un bocciolo di rosa rosso sangue, il primo che un giovane regalò all’amata come pegno d’amore in una tradizione destinata a perpetuarsi.
E poi le altre storie mai scritte prima, di fantasmi di bambini in vecchi orfanotrofi, di luci notturne in Molini abbandonati laddove stava sepolto il corpo di una santa, di vampiri improvvisati che assalgono e mordono ragazze in pieno giorno, e i mille aneddoti di vita vissuta in una città straordinaria e unica, che meritavano di essere narrati anche solo per il luogo dove presero vita. I luoghi, appunto. Il fatto che Venezia sia essenzialmente la stessa città del Cinque, Sei, Sette e Ottocento (per non parlare dei secoli precedenti, tutti stratificati nei marmi e nei mattoni), consente di raccontare storie indicandone esattamente l’origine, quasi topografica. “Veneziaenigma” è un insieme di luoghi in cui prendono nuovamente vita, come per incanto, le creature che – se anche hanno perso la loro umanità corporea – riemergono fra le pagine per raccontare ancora il loro messaggio di speranza o di morte, di dolore o di gioia, in ogni caso così vivo, presente, vibrante, emozionante ancora oggi.
Il libro contiene decine di foto in bianco e nero di Gabriele Gomiero, vicentino-veneziano trapiantato nel trevigiano, che godono di una loro speciale autonomia tra le pagine: sguardi obliqui, inconsueti, inediti. Un linguaggio che non solo si somma a quello delle parole, ma vi si fonde con una armonia tra immagine e lettura difficile da raggiungere. È edito da Elzeviro.
Ecco due passaggi tratti dal volume:
La Rabbia di Lucrezia
F. aveva vent’anni, alla fine degli anni Quaranta del secolo passato, e quella sera si apprestava ad ascoltare un concerto di musica sinfonica alla radio, che aveva sul suo comodino, mentre comodamente stava disteso sul letto in camera sua, ricavata nella casa di famiglia della Giudecca in modo che si vedesse chiunque accedesse dal piano inferiore. Il giovane aveva schermato anche la luce del piccolo abat-jour sul comodino per potersi godere la musica in una gradevole penombra.
Dopo più di un’ora di concerto, verso mezzanotte, il ragazzo fu distolto da qualcosa di strano: sulla scala un globo luminoso saliva come avrebbe potuto fare una persona, fluttuando all’altezza della testa: una trentina di centimetri di diametro, la sfera appariva fluorescente e dotata di un alone, e vi si distingueva a malapena qualcosa. Salita la scala il globo si fermò. F. stava in silenzio, spaventato, cercando di capire cosa stesse accadendo.
Poi, improvvisamente, il globo si mosse velocemente e scartò verso il giovane, che terrorizzato realizzò come la massa fluorescente celasse un viso di donna dai tratti tirati, cattivi, minacciosi, che con rabbia avanzava verso di lui. F. ebbe solo il tempo di togliere il cartoncino col quale aveva schermato la lampada. La visione scomparve in un istante, ma lasciò in lui un tale stato di agitazione che – pur senza farne parola ai fratelli o alla madre – passò la notte sveglio, con la luce accesa.
Una quindicina d’anni dopo venne il tempo di un ritrovo familiare, per cena, a Natale. Alla fine, tra un discorso e l’altro, la serata volse su storie di streghe e spettri. Fu allora che F., ormai trentacinquenne, decise di raccontare ai parenti la sua strana avventura di tanti anni prima. Una delle sorelle, maggiore di lui di una decina d’anni, non poteva credere alle sue orecchie: “Anch’io ho visto la signora!”, esclamò. Il fatto era avvenuto quando la donna era quattordicenne, quindi sedici anni prima della visione del fratello, e la dama gli era apparsa fluorescente, ma tutta intera, in veste cinquecentesca. “Non ne ebbi paura – raccontò ancora la sorella – perché venne verso di me sorridendo; aveva un fare benevolo”.
Un fantasma che odia gli uomini e sorride alle donne, dunque. Chi può essere? Perché si comporta così? Chi abitò quella casa e cosa può essere accaduto alla dama luminosa? Domande che per anni F. portò con sé, fino al momento in cui decise di fare alcune ricerche: luoghi, tempi e vicenda portarono – e tutt’ora portano – diritti alla vicenda di Lucrezia Cappello.
Lucrezia aveva 36 anni, l’undici luglio 1602, quando – come raccontano le cronache criminali del Consiglio dei Dieci, nel loro palazzo di rio della Croce “Ser Zuanne Sanudo fo de ser Alvise, senza causa alcuna feriva con un pugnale nel proprio suo letto Donna Betta (Lucrezia) Cappello sua moglie, di cinque ferite per le quali subito morì”. Zuanne sta per Giovanni, il marito geloso all’inverosimile, che la sera prima aveva costretto la donna – con la violenza – a confessare adulteri mai avvenuti. I due avevano cinque figli, tre maschi e due femmine.
L’uomo fuggì e fu condannato in contumacia al bando e alla decapitazione, con un premio di duemila ducati per chi l’avesse catturato. Più volte Giovanni Sanudo implorerà la grazia, con la scusa di provvedere ai figli, diventati orfani per sua mano: “Quella poverina di mia moglie – scriveva ai Signori della Serenissima – terminò innocentemente la vita…” riconoscendo di essere stato accecato dalla gelosia. Ebbe dei salvacondotti, rinnovati di volta in volta, finché nel 1621, ottenuta una “carta di pace” dai Cappello, potè tornare definitivamente in città.
Sulla morte di Lucrezia il libro dei morti di Sant’Eufemia, parrocchia alla quale la donna apparteneva, riporta singolarmente una duplice versione del decesso: “amalata da dogia de cuor de cinque giorni e poi amazata”, riporta la prima, lasciando intendere un improbabile caso di pietosa eutanasia. Ma su queste parole sono state tirate delle righe frettolose, che cancellando una verità di comodo lasciano spazio alla seconda motivazione di morte: “…di molte ferite”.
Così Lucrezia Cappello torna a calcare scale e pavimenti della casa che fu sua, mostrandosi irata con gli uomini e benevola con le donne. Se la sua famiglia ha perdonato chi le tolse la vita, non così lei, che si dispera per esser stata strappata al mondo ancora nel fiore dell’età, e soprattutto senza una ragione ma solo per cieca, stupida gelosia. “La contrada la predica per una Santa”, scriverà nel raccontare il delitto il vescovo di Canea Domenico Bollani a Ser Vincenzo Dandolo.
Il Guardiano del Demonio
La storia che andiamo a narrare ora risale al 1552, ed è una delle più conosciute leggende veneziane. Il fatto avvenne in una casa allora di proprietà della famiglia Soranzo, e riguarda un grande bassorilievo rappresentante un angelo sulla facciata che guarda un canale a poca distanza da piazza San Marco. Tutta la zona è detta “dell’Angelo” proprio in relazione alla figura alata che benedice – con la mano destra – un globo che tiene con la sinistra. Poco sopra la testa dell’angelo, si può notare un piccolo foro: secondo i veneziani, quello è il motivo per cui la rappresentazione sacra è stata posta sul muro esterno dell’abitazione.
Abitava dunque nel 1552 in questa casa un avvocato, impiegato presso la Curia Ducale, che malgrado la sua sincera devozione alla Vergine Maria aveva accumulato molte ricchezze in maniera disonesta, e a scapito di tanta povera gente. Un giorno l’uomo ebbe l’occasione di avere a pranzo padre Matteo da Bascio, primo generale dei Cappuccini, persona in odore di santità, al quale – prima di sedere a tavola – volle far vedere una vera rarità: una scimmietta addomesticata, così intelligente al punto di servirlo anche nelle faccende domestiche.
Alla vista del frate, però, la scimmia scappò a rintanarsi sotto un letto, e non volle saperne di uscire da lì. Padre Matteo vide – per grazia divina – che sotto la pelliccia dell’animale si celava nientemeno che il demonio, e in tono imperioso le disse: “Io ti comando da parte di Dio di spiegarci chi tu sia, e per quale ragione ti trovi in questa casa”.
“Io sono il diavolo – rispose la scimmia, che improvvisamente iniziò a parlare – e sono qui per appropriarmi dell’anima di questo avvocato, che a causa della sua condotta mi appartiene”. “E perché – ribatté il frate – avendo tu tanta brama di quest’uomo, non l’hai ancora ucciso e portato con te all’inferno?”. “Per un solo motivo – disse il demonio -: perché prima di andare a letto egli ha sempre raccomandato l’anima a Dio e alla Madonna; se avesse dimenticato anche una sola volta le sue preghiere, sarebbe già da tempo con me, tra i tormenti eterni”.
Udito ciò, il cappuccino si affrettò a comandare al nemico di Dio di lasciare immediatamente quella casa, ma il diavolo si oppose, spiegando come dall’alto gli fosse stato dato il permesso di non partire da quel luogo senza aver prima causato comunque qualche danno.
“Allora vuol dire che un danno farai – gli intimò padre Matteo – ma sarà solo quello che ti ordinerò io. Farai un foro su questo muro, uscendo da qui, e il buco servirà a eterna testimonianza dell’accaduto”. Il diavolo poté solo obbedire, e il frate, avvicinatosi alla tavola imbandita per il pranzo, riprese l’avvocato sulla sua vita passata. Nel parlare, il cappuccino aveva preso in mano un lembo della tovaglia: “guarda – disse all’uomo strizzandone un lembo, e facendone uscire per miracolo molto sangue – questo è il sangue dei tanti poveri che tu hai angariato con i tuoi imbrogli e le tue estorsioni”.
L’avvocato pianse lacrime amare, e nel promettere di restituire il maltolto ai poveracci alle cui spalle si era arricchito, ringraziò il religioso per la grazia ricevuta. Un solo timore gli rimaneva: quel buco sulla parete, attraverso il quale Belzebù sarebbe potuto tornare così come se n’era uscito. Fu allora che padre Matteo gli indicò la soluzione: il buco andava difeso dall’immagine di un angelo, perché alla vista degli angeli santi fuggono gli angeli cattivi. Così, da quasi cinquecento anni, l’angelo di Ca’ Soranzo fa da guardiano al buco nel muro, perché il diavolo non abbia a tornare.
Anno di pubblicazione: 2004
Genere: Guida turistica, Narrativa
Pagine: 396
EAN: 9788887528091
Listino: 24.9
Editore: Elzeviro
Data di uscita: 01/01/2004