LA FORTUNA SCENDE E SALE

Esco di casa un po’ di fretta. Devo raggiungere un luogo dove devo effettuare delle riprese, poco lontano da campo San Giovanni e Paolo; ho il tempo giusto per fare colazione e ho programmato tutto: sosta in campo di Gesuiti, cappuccino e brioche, e via verso l’appuntamento. Svolto l’angolo di fondamenta Santa Caterina, infilo rapidamente la mano nella tasca interna della giacca per prendere la mascherina… ma la mascherina non c’è. Non è in quella tasca, né nell’altra, né in nessuna piega dei miei pantaloni, nella mia borsa di tela, in nessun luogo. Ho cambiato abiti per metterne di adatti alle riprese ma non ho pensato di prendere una mascherina, rimasta in quelli indossati la sera precedente. Il bar che avevo in mente ha la porta chiusa e il bancone molto lontano: impensabile raggiungerlo senza mettermi qualcosa davanti a bocca e naso; oltretutto è pieno di altri avventori.

Studio rapidamente il da farsi: non ci penso proprio a saltare la colazione. Ma d’altro canto qualsiasi farmacia, bazar, supermercato nei quali io possa procurarmi una mascherina sono lontani anni luce. Mi servirà per lavoro, ma ci penserò strada facendo. Adesso devo assicurarmi cappuccino e brioche. Aspetta… verso la fine del campo c’è un bar, “Tortuga” si chiama, che ha un bancone praticamente accanto a uno dei due ingressi. Ordinerò da fuori con facilità!

Mi avvicino alla porta: all’interno c’è una coppia seduta a un tavolo, ma dietro il bancone non c’è nessuno. Aspetto, ma un istante dopo scende una voce dall’alto, dalla casa di fronte:

“Abbaaas, ABBAAAAAS!”. Alzo gli occhi, una signora sta chiamando qualcuno all’indirizzo del bar, dal terzo piano. Guardo dentro. Nessuno. La signora urla una terza volta. Io mi volto verso di lei e le dico, ovviamente a voce abbastanza alta perché mi senta, che dentro non c’è nessuno.

“Eh, el sarà in cusina”.
“No so dirghe, signora… no posso gnanca entrar, che so sensa mascherina”.

Alla fine Abbas esce. Era in cucina a preparare qualcosa per la coppia seduta al tavolo. Gli dico che la signora del terzo piano lo sta cercando: “Chi? la vergine?”, e ridacchia.

Esce e la chiama (ma d’altronde lei non si è mai mossa da lì); è probabilmente nato in un qualche luogo del nordafrica, ma capisce e parla il veneziano:

“Dime, Vergine!”

“Va*****lo!”, gli risponde lei di rimando. Ma ride. “Mandimene su uno!”

“Uno solo?! Te dago el mio”. È Goldoni all’ennesima potenza. Nel 2022. “Ma no ti podevi vegnir a tortelo?”, le chiede.

“MA NO, che so in quarantena! Ze l’ultimo giorno”. Dico alla signora che ci sono passato, che serve solo tanta pazienza.

“Ma ti ciamime, no? no ti ga el numero?”

“no so bona de meterlo in memoria. no so strucar el boton”.

“ma te lo struco mi, el boton”.

Abbas rientra, mette una brioche in un sacchettino. Mi offro di portarla alla signora, ma lui mi dice che non serve. Torna fuori e fa vedere il sacchetto a Gianna, che questo è il nome della signora. Lei si appresta a rientrare:
“Buto zo el cesto, e te dago anca na mascherina!”, dice rivolta a me.
Un minuto più tardi un cestello di vimini, legato con uno spago, scende dal terzo piano. La corda è un pò corta, Abbas ci arriva a malapena, vado meglio io. Dentro la brioche, fuori due mascherine. Faccio la mia colazione felice, corro al mio appuntamento di lavoro. Chiedetemi perché amo questa città.