DELLA STESSA MATERIA DEI SOGNI

A Venezia potreste raccontare una cosa qualsiasi, la prima che vi viene in mente, che ne so… che gli antichi veneziani erano talmente coinvolti dalla loro vita anfibia al punto da tenere in casa i pesci della laguna come animali domestici; potresti poi aggiungere che gli davano da mangiare scaglie d’oro, per renderli più baluginanti sotto la superficie dell’acqua delle grandi vasche nelle quali li ospitavano, e che una volta passati a miglior vita ci si facevano seppellire assieme. Che sono centinaia, migliaia, le vecchie sepolture rivenute con questa particolare forma di inumazione. Ebbene, vi crederebbero.

Perché la città è così: la sua struttura, i colori, le luci (ma anche le ombre), i profumi (ma anche gli odori) e in generale la sua aura di irrealtà e di assoluta magia sono tali che qualsiasi suo angolo va a stimolare la fantasia di chi la vede e immagina chissà quali leggende e racconti; Venezia è anche questo: fantasia e meraviglia. E più incredibili sembrano essere le storie che vi vengono raccontate, più facile è che vengano credute. Perché, ed ecco il vero segreto del suo fascino eterno, diventano tutte vere.

Nel suo essere diversa da qualsiasi altra forma urbana conosciuta, nel suo essere senza dubbio la città più citata e imitata dalle altre – La “Venezia del Nord”, la “Venezia d’Oriente”, e cosi veneziando – ha infatti finito per inglobare ogni forma di immaginazione; per concentrare su di sé ogni pulsione creativa, ogni sogno più ardito, rendendoli – se non reali – almeno possibili. Venezia è la città dove ogni cosa è possibile.

Ma ritorniamo alla nostra invenzione: siamo davvero sicuri che gli antichi veneziani non nutrissero davvero i loro pesci domestici con scaglie d’oro? No, non ne siamo più tanto sicuri. Certo, ce lo siamo inventati sul momento, ma forse l’avevamo sentito dire – tempo fa – e questa cosa, questo fatto così curioso, che sul momento non ci era sembrato così rilevante, ci è tornato in mente ora. Abbiamo pensato di inventare qualcosa, e invece – forse – quella cosa già esisteva, sotto forma di leggenda, e l’abbiamo solamente descritta, una volta di più.

A Venezia non c’è bisogno di inventare nulla. È la città stessa che si inventa e si reinventa, illudendoci di poterla catturare, di poterne cogliere lo spirito e l’essenza senza che ciò avvenga mai, a dispetto del fatto che la possiamo circondare con lo sguardo; che – apparentemente – sia “tutta lì”, davanti a noi. Invece, possiamo esserne solo fortunati spettatori e cantori. Qualcuno, più privilegiato, la abita. E se ne nutre, così come si fa con i sogni.

Venezia, dal canto suo, si lascia sognare volentieri, e altrettanto volentieri suscita il sogno. D’altronde, da un sogno lei è nata. Non parliamo di quello, visionario e ardito, dei primi uomini e delle prime donne che decisero che avrebbero posato dei marmi preziosi sul fango di una laguna; parliamo proprio di una visione fatta della materia dei sogni, così potente da farsi profezia: quella avuta dall’Evangelista Marco, che secondo una leggenda approdò fortunosamente sulle isole di Rialto, allora disabitate, a causa di una tempesta che suggerì ai marinai coi quali viaggiava di effettuare quella sosta forzata, nel ripartire da Altino.

Hic requiescet corpus tuum, qui riposerà il tuo corpo, gli preconizza nella notte e nel sonno l’arcangelo Gabriele, che pochi anni prima aveva già annunciato alla Vergine che sarebbe diventata madre di Dio. Lo aveva fatto un venticinque marzo, lo stesso giorno in cui – è ancora la leggenda a narrarlo – nel 421 nascerà Venezia.

Il destino raccolto in quella breve frase è preceduto da un saluto, Pax tibi Marce Evangelista meus, del quale i Veneziani si appropriano così come faranno diventare città e leone alato una cosa sola. Venezia è il leone alato, sulla base di un incontro fortunato e indissolubile. E quel saluto, assieme al leone, finiscono per formarne il vessillo.

Venezia nasce da un sogno, e sulla sua bandiera imprime le parole di un sogno. E non vi sarebbe molto altro da aggiungere a questo, se non che – in funzione di tutto ciò – sia anche l’unica bandiera della storia che riporti – tra l’altro – la parola “pace”.

(Questo scritto è stato realizzato per il volume “Enrique Breccia – Viaggio a Venezia”, edito da Remer Comics, allo scopo di accompagnare una delle storie del maestro argentino – sceneggiate da Barbara Pilon – ispirata da un mio racconto raccolto dalla tradizione orale veneziana)